A Violet Pine – Girl (Seahorse Recordings, 2013) di Daniele Dominici
Relics's Rating
Ci troviamo in un paese dove spesso le buone idee vengono trattate con estremo scetticismo. In ambito musicale, soprattutto, non appena qualcosa cattura l’attenzione dei più (qualsiasi sia la scena), una buona percentuale di critici reagisce con un distacco degno di un perbenista davanti ad un bacio lesbo. E questa tendenza è talmente cementificata nell’immaginario di chi ascolta, da creare il peggiore dei blob ideologici: l’impossibilità di riconoscere un ottimo lavoro quando lo si ha tra le mani.
Questo breve incipit incarna fedelmente il viaggio di un qualsiasi anonimo nell’universo dei A Violet Pine, band italianissima alle prese con un impegnativo (e pregevole) disco d’esordio di nomeGirl.
Si sa, un analista deve saper accogliere le voci dei colleghi e nel caso specifico, oltre alla tendenza sottolineata in apertura (forse più appartenente ad una macro categoria), è impossibile non rimaner stupiti da quel malcostume che pervade i critici come un demone bricconcello, costringendoli a dover sciogliere il rebus dell’assegnazione di genere utilizzando improbabili commistioni. Il compulsivismo vero, a volte si cela dietro maschere sottili come carta velina.
Gli A Violet Pine sono semplicemente incatalogabili, elettronici sicuramente, dediti al culto del synth, ma incatalogabili. La musica di questi tre ragazzi (Beppe Procida, Paolo Ormas e Pasquale Ragnatela) è talmente avvolgente, decadentemente avvolgente, che lasciarsi distrarre da giudizi di colore, valore, genere, sarebbe un delitto.
Il dovere di cronaca (forse un più concreto desiderio di comunicare a chi legge le sfumature del gruppo) ci costringe ad assimilarli ad una costola del Post Rock, con i riverberi, le voci diffuse, le chitarre sognanti, elementi peculiari del genere figlio degli anni duemila.
L’errore sarebbe fermarsi qui: c’è il post rock, vero, ma gli A Violet Pine hanno la faccia tosta di compenetrare le influenze che storicamente hanno dato i natali al genere stesso, mescolandole con il prodotto finale. Esce fuori un frullato psichedelico degno di David Gilmour che incontra i God is An Astronaut. Eccezionale.
Varie sono le dimostrazioni tangibili. Nella title track, ad esempio, capiterà di trovarsi nel bel mezzo di un viaggio onirico ad occhi aperti, nemmeno gli anni a cavallo tra sessanta e settanta fossero stati messi in naftalina per essere tirati fuori il giorno del ballo delle debuttanti. Eppure gli effetti son lì a galoppare, a mettere fretta, ansia, ricordandoci che l’abito può rimanere lì dov’è: siamo negli anni duemila, non c’è tempo, non c’è tempo, prossima traccia.
E’ forse per questo che il gruppo è stato accostato alla poetica grunge, di cui rispetta il nichilismo, senza tuttavia stupirsene o diventare il grido di una generazione. Così è se vi pare, insomma.
Prendete Sleep (essenziali anche i titoli, ad una valigia non serve un’etichetta lunga). C’è la dormiveglia, c’è il flusso di pensieri, c’è la voce assonnata. Eppure il sonno non arriva mai e, anzi, ogni singolo ‘ding’ prodotto dal synth è talmente fastidioso che sembra descrivere un’alba travagliata piuttosto che un tramonto. Il mal di vivere non conosce sonno, al massimo circonda le vittime allorché poggiano la testa sul cuscino.
E così via senza soluzione di continuità, elementi, spunti, fusi insieme come in un quadro futurista con forti spunti tematici presi in prestito dalla contemporaneità più spinta. La conclusione degna del lavoro, è l’hardcore miscelato della traccia Sam, il momento di catartica confusione che precede il risveglio dopo un lungo sogno (forse un trip da acidi? Meglio overdose da metadone); il tutto reso da una naturalezza stilistica quasi imbarazzante, considerando che ci troviamo davanti ad un album d’esordio.
Ecco: per ricollegarci al tema iniziale, nella maggior parte dei casi gli A Violet Pine verranno relegati in quella categoria di artisti troppo arditi per esser considerati credibili. Ed invece siete voi ad aver scavalcato la barricata, ad aver superato il limite immaginario tra critica e collezionismo. Non sono dischi come Girl ad assomigliare a Nine Inch Nails, Radiohead e Pink Floyd, ma siete voi che nell’intento di capire, non siete arrivati a nessuna conclusione, utilizzando, invece, tutte quelle che avevate preso in considerazione durante la ricerca.
Come disco d’esordio, Girl, va decisamente ascoltato. E la svolta chitarristica (pesante) sul finale di Fragile, lascia presagire un seguito tutto da gustare.
Leave the kids alone, this is true italian experimentation.
Si sa, un analista deve saper accogliere le voci dei colleghi e nel caso specifico, oltre alla tendenza sottolineata in apertura (forse più appartenente ad una macro categoria), è impossibile non rimaner stupiti da quel malcostume che pervade i critici come un demone bricconcello, costringendoli a dover sciogliere il rebus dell’assegnazione di genere utilizzando improbabili commistioni. Il compulsivismo vero, a volte si cela dietro maschere sottili come carta velina.
Gli A Violet Pine sono semplicemente incatalogabili, elettronici sicuramente, dediti al culto del synth, ma incatalogabili. La musica di questi tre ragazzi (Beppe Procida, Paolo Ormas e Pasquale Ragnatela) è talmente avvolgente, decadentemente avvolgente, che lasciarsi distrarre da giudizi di colore, valore, genere, sarebbe un delitto.
Il dovere di cronaca (forse un più concreto desiderio di comunicare a chi legge le sfumature del gruppo) ci costringe ad assimilarli ad una costola del Post Rock, con i riverberi, le voci diffuse, le chitarre sognanti, elementi peculiari del genere figlio degli anni duemila.
L’errore sarebbe fermarsi qui: c’è il post rock, vero, ma gli A Violet Pine hanno la faccia tosta di compenetrare le influenze che storicamente hanno dato i natali al genere stesso, mescolandole con il prodotto finale. Esce fuori un frullato psichedelico degno di David Gilmour che incontra i God is An Astronaut. Eccezionale.
Varie sono le dimostrazioni tangibili. Nella title track, ad esempio, capiterà di trovarsi nel bel mezzo di un viaggio onirico ad occhi aperti, nemmeno gli anni a cavallo tra sessanta e settanta fossero stati messi in naftalina per essere tirati fuori il giorno del ballo delle debuttanti. Eppure gli effetti son lì a galoppare, a mettere fretta, ansia, ricordandoci che l’abito può rimanere lì dov’è: siamo negli anni duemila, non c’è tempo, non c’è tempo, prossima traccia.
E’ forse per questo che il gruppo è stato accostato alla poetica grunge, di cui rispetta il nichilismo, senza tuttavia stupirsene o diventare il grido di una generazione. Così è se vi pare, insomma.
Prendete Sleep (essenziali anche i titoli, ad una valigia non serve un’etichetta lunga). C’è la dormiveglia, c’è il flusso di pensieri, c’è la voce assonnata. Eppure il sonno non arriva mai e, anzi, ogni singolo ‘ding’ prodotto dal synth è talmente fastidioso che sembra descrivere un’alba travagliata piuttosto che un tramonto. Il mal di vivere non conosce sonno, al massimo circonda le vittime allorché poggiano la testa sul cuscino.
E così via senza soluzione di continuità, elementi, spunti, fusi insieme come in un quadro futurista con forti spunti tematici presi in prestito dalla contemporaneità più spinta. La conclusione degna del lavoro, è l’hardcore miscelato della traccia Sam, il momento di catartica confusione che precede il risveglio dopo un lungo sogno (forse un trip da acidi? Meglio overdose da metadone); il tutto reso da una naturalezza stilistica quasi imbarazzante, considerando che ci troviamo davanti ad un album d’esordio.
Ecco: per ricollegarci al tema iniziale, nella maggior parte dei casi gli A Violet Pine verranno relegati in quella categoria di artisti troppo arditi per esser considerati credibili. Ed invece siete voi ad aver scavalcato la barricata, ad aver superato il limite immaginario tra critica e collezionismo. Non sono dischi come Girl ad assomigliare a Nine Inch Nails, Radiohead e Pink Floyd, ma siete voi che nell’intento di capire, non siete arrivati a nessuna conclusione, utilizzando, invece, tutte quelle che avevate preso in considerazione durante la ricerca.
Come disco d’esordio, Girl, va decisamente ascoltato. E la svolta chitarristica (pesante) sul finale di Fragile, lascia presagire un seguito tutto da gustare.
Leave the kids alone, this is true italian experimentation.
Tracklist:
1. Pathetic
2. Girl
3. Even if it rains
4. And then
5. Family
6. 25 mg of happiness
7. Sleep
8. Sam
9. Fragile
10. Pop song for nice people
2. Girl
3. Even if it rains
4. And then
5. Family
6. 25 mg of happiness
7. Sleep
8. Sam
9. Fragile
10. Pop song for nice people
Nessun commento:
Posta un commento